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È andata via l’estate – decimo messaggio in bottiglia per iniziare l’anno scolastico

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Si ripete la tradizione del messaggio di inizio anno scolastico, rivolto agli studenti (ma non solo…) del Vicesindaco e Assessore alla Scuola e alla Cultura Emanuele Ferrari

Cari umani, io da questa vostra corsa tecnica
mi dissocio
capisco che è il nostro destino, il nostro compito
e vi lascio fare, non dico niente
solo che io mi dissocio, sono qui tra gli alberi
in questo bosco sto seduto in silenzio, non faccio niente
soltanto prego e aspetto.

Il fuoco del tempo lo sento come brucia
lo sento sfrigolare, è un rumore debolissimo
ma lo sento, è come una forza che ci tira via,
io mi scrollo da lui e mi scaldo le mani
al suo calore debole,
sento una forza entrare dentro di me
e vedo che tutti salutano e si incamminano
verso un luogo lontano.

(Claudio Damiani)

 

Sono arrivato al decimo anno, che scrivo questo messaggio, e probabilmente sarà l’ultimo.

Allora in questa strana sensazione di “ultimità”, direbbero forse gli amici dimenticazionisti, avrei anche voglia di tirare delle somme, fare dei conti, mettere in piedi un bilancio di quanto scritto e delle sue conseguenze (se qualcuna poi c’è stata e invece non è poi successo niente), tracciare un grafico dello stato delle cose, nel corso del tempo.

Mi trattengo dal farlo, perché mi sono accorto che fare bilanci e quantificare non è propriamente il mio mestiere, visto che sia da assessore, sia da insegnante (vai a sapere perché) tendo sempre a pensare che 2+2 presto o tardi possa fare 5, o perfino 3, anche al ribasso, per pura impertinenza.

Così da questa ultima spiaggia, con davanti l’ultima bottiglia mi viene da pensare due cose.

La prima riguarda quello che dice Claudio Damiani nella poesia che ho messo all’inizio.

Anche io mi dissocio da questa corsa della tecnica, anzi più propriamente io mi dissocio da questo “tempo della tecnica”: quello incasellato negli orari, tempo che non si vive perché sempre trascorre nell’ansia (e spesso nella certezza) di perderlo, tempo imprigionato nelle sessanta celle dei Minuti, nel penitenziario dell’Ora svuotata di senso, battezzata senza nome.

Penso a quelli che ogni anno scolastico si occupano di “fare l’orario”, o meglio, in termine tecnico appunto, della “stesura dell’orario delle lezioni”. Bene in un orario scolastico non esiste nulla di disteso, nulla che sia possibile considerare come un respiro vasto, uno spazio aperto. Tutto è compresso, incastrato, tanto è vero che quando uno finisce il lavoro la prima cosa che dice, con un filo di sardonica e amara soddisfazione è: “anche quest’anno ho chiuso l’orario!”

La scuola, luogo dell’infinitamente aperto, del condurre e portare l’altro in luogo ampio, nel pensiero del fuori (in accordo e risonanza col pensiero di dentro), inizia con una chiusura, con il gesto di lasciare fuori il mondo della vita (gli si preferisce la chirurgia delle aule, anche quando le chiamiamo laboratori), la sua incertezza fragile e meravigliosa, il senso del non previsto e non prevedibile, l’attesa dell’inatteso, che poi, se uno ci pensa, è semplicemente la vita del mondo.

Ha ragione Damiani, meglio pregare e aspettare, stare seduti in silenzio in un bosco, mettersi in ascolto del rumore più debole che passa tra le mani, che si sente e ci entra dentro: il fuoco del tempo.

Non esiste infatti un vero Tempo della tecnica, proprio perché a noi esseri umani non è concesso di maneggiare una Tecnica del tempo. Ci illudiamo di poterlo ingabbiare e invece è lui (o meglio la sua finzione) che ingabbia noi. Abbiamo però la possibilità di liberare il tempo dal tempo e credo ci sia un luogo per eccellenza destinato a questo, un luogo che mi piace pensare come tempo del fuoco: dove ogni giorno si accendono e si tengono vive le fiamme della conoscenza, gli intrecci dei saperi, ricerca e cammino verso noi stessi, il luogo più lontano che esiste.

La scuola credo che deve poter essere questo luogo (lo è nella sua essenza più profonda e dunque invisibile), questo tempo e questo fuoco. Questo aspettare e pregare sulla soglia del bosco, dopo aver disperso briciole sui sentieri, esplorato labirinti, riportando da ogni viaggio il seme di una storia possibile che lega gli uomini, una forza che ci entra dentro, dove tutti ci salutiamo (nel senso che ci impegniamo per la nostra reciproca salvezza), ci auguriamo un bene che non può essere che quello comune, dono e nodo, benessere che è soprattutto uno stare (nel) Bene.

E poi c’è la seconda cosa. La riassumo in breve: è andata via l’estate e arriva la scuola.

Sembra quasi un assioma. Ma ogni volta che qualcosa finisce, per la semplice ragione di un suo possibile destino, lascia sempre una traccia in quello che viene, in quello che potremmo forse chiamare il suo avvenire. Per capire cosa ci lascia l’estate forse bisogna avventurarsi a cercare cosa sia. E anche qui mi faccio aiutare da un poeta, Eugenio Montale, uno di quelli che si studiano a scuola, in una poesia che ho messo alla fine. La poesia in questione s’intitola proprio L’estate e se uno prova a leggerla ad alta voce si rende conto subito di una cosa: l’estate ci toglie il fiato, è una corsa di parole che ci travolge. Nasce dall’ignoto di un ombra rapace che scivola sulle piante appena nate, mescola nuvole con facce sconfinate di sorgente, salta come i pesci controcorrente, fa rinascere cose morte, scalda, illumina, fa danzare farfalle in un giro folle, si aggrappa al filo teso del ragno, sospeso sulla schiuma del mare. L’estate è davvero questa esplosione, tracimare della vita che non trova riposo.

Poi arriva la scuola, anzi la skolè, che è appunto riposo dopo uno sforzo. Come a dire che se il pulsare continuo e a volte straziante della vita rischia di scompaginare tutta la nostra esistenza, rischia di cancellare ed escludere, non far passare oltre (dall’altra parte) il barlume di ogni storia e la storia di ogni barlume, c’è pur sempre un luogo, ancora una volta, dove ogni luce può trovare la sua casa, o forse la sua candela. E continuare così a scaldare, scaldarci.

Perché non è vero che occorrono troppe vite per farne una, ma accade proprio il contrario: che il filo della nostra vita, della nostra estate si moltiplica, posa di nuovo (letteralmente ri-posa) nel nido che costruiamo insieme: insegnanti (coloro che cercano di lasciare un segno, o semplicemente di fare in modo che ci siano segni da lasciare ad altri) e studenti (quelli che desiderando si mettono in cammino per trovare ciò che desiderano, anche quando è un luogo lontano, il più lontano possibile).

Buona estate dunque. E buona scuola.

 

L’ombra crociata del gheppio pare ignota
ai giovinetti arbusti quando rade fugace.
E la nube che vede? Ha tante facce
la polla schiusa.

Forse nel guizzo argenteo della trota
controcorrente
torni anche tu al mio piede fanciulla morta
Aretusa.

Ecco l’òmero acceso, la pepita
travolta al sole,
la cavolaia folle, il filo teso
del ragno su la spuma che ribolle –
e qualcosa che va e tropp’altro che
non passerà la cruna…

Occorrono troppe vite per farne una.

(Eugenio Montale)

 

Emanuele Ferrari